DISVELAЯSI
Scegliere il titolo per una mostra personale è ancora più difficile che scegliere quello di un quadro che, già di per sé, è un’impresa ardua.
“Disvelarsi” però è stata la prima parola che mi è passata per la mente pensando ai miei quadri e al modo che ho di lavorare. È un processo che si sviluppa per sovrapposizione di colori, materiali e pensieri che, se non riesce a concludersi con quell’equilibrio formale ed estetico che cerco, termina togliendo, grattando, andando a cercare qualcosa che era già lì e che aspettava solo di essere trovato.
Il senso può anche essere quello di “mettersi a nudo”, arrivando a rivelare qualcosa di profondo che, a volte, è sconosciuto pure a me. Ed è qui che nascono i quadri con i titoli più significativi.
Nonostante questo però, proprio per i molteplici passaggi che caratterizzano ogni mia opera, il risultato finale non è solo l’ultima espressione di tutto il lavoro ma rimane un mondo sottostante nascosto, completamente da decifrare. Per questo il titolo della mostra, DISVELAЯSI, è un manifestarsi solo apparente che costringe lo sguardo più attento a coglierne il senso più profondo.
Dieci quadri, realizzati per rendere esplicita la ricerca di un linguaggio al confine tra l’informale e il figurativo: ogni tela racconta la propria storia, la mia, e spesso anche quella di chi osserva.
BIOGRAFIA
Architetto, classe ‘63. Nasco, vivo e lavoro a Firenze.
Non mi definisco “pittore”… Faccio “altro”.
Qualcosa che innanzitutto serve a me, una forma di espressività, tangibile, che ti impegna anima e corpo ma che riesce anche a darti quel senso che spesso cerchiamo inutilmente. Esprimo stati d’animo, che spesso si modificano nell’arco della realizzazione di un quadro e a quel punto, nascono i lavori migliori. Ecco, qua sono nel mio centro.
Perché la pittura. Mi ci sono avvicinato con molto rispetto, provenendo da studi prettamente tecnici e avendo realizzato per anni grafica digitale. Ma la potenza di lavorare con le mani, sperimentare, fare e disfare, sovrapporre, incollare, sporcare, graffiare, annusare, godere e dispiacersi… tutto questo ho capito fin dal primo tentativo, che poteva arrivare solo in questo modo.
La mia pittura può essere definita informale, ma è un informale sicuramente non gestuale; ha bisogno di una preparazione di fondo su cui poi lavorare, stendendo il colore in modo che non sia percepibile la pennellata.
E il meccanismo è lo stesso, sia quando i lavori comportano l’uso di carta e colla mescolata al colore sia quando lavoro in modo più canonico: attraverso numerosi passaggi e sovrapposizioni di materiali e colori, arrivo a quell’equilibrio formale che mi consente di considerare “chiusa” un’opera.
NOTE CRITICHE
“In brevissimo tempo Michele Berlot è riuscito a fissare una cifra stilistica tutta sua, non assimilabile ad altre esperienze, dando sfogo a questo suo innato senso del colore”
“Nelle sue opere il colore evoca una profondità che non è prospettica ma ottenuta attraverso la luminosità dello stesso”
“Il colore nella sua pittura ha sempre una qualità generativa. Le forme che vediamo, infatti, nascono dal colore stesso e mettono in moto le nostre qualità percettive, che ci guidano ad intravedere un qualcosa che noi già conosciamo. Passiamo così, in una continua evoluzione, da una dimensione fluida e liquida, dove tutto cambia, a una solida, che ricorda il ghiaccio e la pietra” (Note critiche di presentazione ad una mostra)
“Attualmente la sue ricerca si orienta sull’astrazione cromatica, ottenuta stratificando il colore sulla tela con venature che ne accentuano la profondità luminosa. L’ispirazione nasce spesso dalla natura per essere poi trasfigurata in chiave lirico-astratta” (Nota critico-biografica all’interno del CAM n° 53)
Daniela Pronestì, storica e critico d’arte, curatrice di eventi artistici
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