I find myself in a small space, in an empty house. Alone among traces of a sealed past, I have no intuition of what is to come. I am wrapped in a shapeless present. I have a few materials with me. Soaked in silence, I listen to the scissors slicing through the canvas, the tearing of tape: a thread falls off the irregular edge of the canvas, ripples form in the tape. Two windows looking onto a roof bathed by rain, and sky. I paint in a changing light, often twilight, at times dark. A field gradually emerges between the space, the canvases, and me. I do not know what happens when I am absent, I do not know how to describe the images that impressed in my mind when I leave this temporary studio.
Painting becomes a part of a listening practice: I acknowledge sounds, spatial relationships, light transitions. I suspend a search formeaning, not for the sake of intellectualism or experimentation but for a subdued posture that presents itself to me and I accept. I am not responding to what is taking place on the canvas, I myself am part of it. I am not looking for dialogue, not for discourse. I sense a breath, a mist, dust. I follow my wrist’s subtle movements, how my fingers hold the brush, the slant and breadth of the brushstrokes. Color lowers its voice, lean paint glides, runs, nests among the canvas fibers, and vanishes; a drop is touched, it resists, disappears. I am tempted to call it a narration.
I sit on the floor, squint, the canvases stare at me with a liquid gaze. Now something ephemeral can appear, which will be quickly glazed to then be forgotten. I do not wish to reflect upon this. I try to imagine my paintings erased in the absence of light. When I return in the morning, I know that something has changed. I cannot mark sharp boundaries between the space, the canvases and myself: in this hesitation, which blurs the distance between us, we are alive together. I formulate the thought that we may be sharing a state of epochē. I suspend that thought.
Mi ritrovo in un piccolo spazio, in una casa vuota. Sola tra le tracce di un passato sigillato, non ho intuizioni su ciò che verrà. Sono avvolta in un presente informe. Ho con me pochi materiali. Immersa nel silenzio, ascolto le forbici che tagliano la tela, lo strappo del nastro adesivo: un filo si stacca dal bordo irregolare della tela, si formano increspature nel nastro.
Due finestre si affacciano su un tetto bagnato dalla pioggia e dal cielo. Dipingo in una luce mutevole, spesso crepuscolare, a volte buia. Tra lo spazio, le tele e me emerge gradualmente un campo. Non so cosa succede quando sono assente, non so come descrivere le immagini impresse nella mia mente quando lascio questo studio temporaneo. La pittura diventa parte di una pratica di ascolto: riconosco i suoni, le relazioni spaziali, i passaggi di luce. Sospendo la ricerca di un significato, non per amore dell’intellettualismo o della sperimentazione, ma per una postura sommessa che mi si presenta e che accetto.
Non rispondo a ciò che avviene sulla tela, io stessa ne faccio parte. Non cerco un dialogo, non cerco un discorso. Percepisco un respiro, una nebbia, della polvere. Seguo i sottili movimenti del polso, il modo in cui le dita tengono il pennello, l’inclinazione e l’ampiezza delle pennellate. Il colore abbassa la sua voce, la vernice magra scivola, corre, si annida tra le fibre della tela e scompare; una goccia viene toccata, resiste, scompare. Sono tentata di chiamarla narrazione. Mi siedo sul pavimento, socchiudo gli occhi, le tele mi fissano con uno sguardo liquido. Ora può apparire qualcosa di effimero, che verrà rapidamente smaltato per poi essere dimenticato. Non voglio riflettere su questo. Cerco di immaginare i miei dipinti cancellati in assenza di luce. Quando torno al mattino, so che qualcosa è cambiato. Non riesco a segnare confini netti tra lo spazio, le tele e me stessa: in questa esitazione, che sfuma la distanza tra noi, siamo vivi insieme. Formulo il pensiero che forse stiamo condividendo uno stato di epoché. Sospendo questo pensiero.